Psicoanalisi e società: Le mamme narciso
Articolo a cura di Sabina Scattola
In questa sezione vorrei proporvi delle suggestioni di "Psicoanalisi e Società". Delle riflessioni profonde e moderne di grandi autori italiani e internazionali, di impostazioni culturali, filosofiche e psicologiche diverse, nell'intento di mostrarvi come la psicoanalisi sia una chiave di lettura per fenomeni attuali che investono la società contemporanea.
Nello specifico l’articolo "Le mamme narciso" di Massimo Recalcati affronta una radicale trasformazione che sta investendo sempre più l’istituto materno, ovvero si vive meno per i propri figli e più per rivendicare la propria autonomia. Vediamo come cambia un’immagine secolare.
Ciao figlio, è il tempo della mamma Narciso.
Dal sacrificio senza limiti alla donna coccodrillo così cambia la figura materna.
Nella cultura patriarcale la madre era sintomaticamente destinata a sacrificarsi per i suoi figli e per la sua famiglia, era la madre della disponibilità totale, dell’amore senza limiti. I suoi grandi seni condensavano un destino: essere fatta per accudire e nutrire la vita. Questa rappresentazione della maternità nascondeva spesso un’ombra maligna: la madre del sacrificio era anche la madre che tratteneva i figli presso di sé, che chiedeva loro, in cambio della propria abnegazione, una fedeltà eterna. È per questa ragione che Franco Fornari aveva a suo tempo suggerito che i grandi regimi totalitari non fossero tanto delle aberrazioni del potere del padre, ma "un'inondazione del codice materno", una sorta di maternage melanconico e spaventoso. Sicurezza e accudimento perpetuo in cambio della libertà.
Sulla stessa linea di pensiero Jacques Lacan aveva una volta descritto il desiderio della madre come la bocca spalancata di un coccodrillo, insaziabile e pronta a divorare il suo frutto. Era una rappresentazione che contrastava volutamente le versioni più idilliache e idealizzate della madre. Quello che Lacan intendeva segnalare è che in ogni madre, anche in quella più amorevole, nella struttura stessa del desiderio materno troviamo una spinta cannibalica (inconscia) ad incorporare il proprio figlio. È l’ombra scura del sacrificio materno che nella cultura patriarcale costituiva un binomio inossidabile con la figura, altrettanto infernale, del padre padrone. Era la patologia più frequente del materno: trasfigurare la cura per la vita che cresce in una gabbia dorata che non permetteva alcuna possibilità di separazione.
Il nostro tempo ci confronta con una radicale trasformazione di questa rappresentazione della madre: né bocca di coccodrillo né ragnatela adesiva né sacrificio masochistico né elogio della mortificazione di sé. Alla madre della abnegazione si è sostituita una nuova figura della madre che potremmo definire "narcisistica". Si tratta di una madre che non vive per i propri figli, ma che vuole rivendicare la propria assoluta libertà e autonomia dai propri figli.
L’ultimo capolavoro del giovane regista canadese Xavier Dolan intitolato "Mommy" (2014) mostra il passaggio delicatissimo tra l'una e l'altra di queste rappresentazioni della maternità. Per un verso la coppia madre-figlio del film assomiglia alla coppia simbiotica della patologia patriarcale della maternità: non esiste un altro mondo al di fuori di sé, non esiste un terzo, non esiste padre, non esistono uomini, non esiste nulla. È una negazione che il regista trasferisce abilmente in una opposizione tecnica traumatica: le riprese a tre quarti, l’assenza di fuori campo, evidenziano un mondo che non conosce alterità, che non ha alcun "fuori" rispetto al carattere profondamente incestuoso di questa coppia.
Ma è l’atteggiamento finale della madre che risulta inedito rispetto alla rappresentazione sacrificale del desiderio materno. Ella non trattiene il figlio problematico, diagnosticato "iperattivo", ma vorrebbe liberarsene. Il suo desiderio non è più quello rappresentato dalla madre coccodrillo e dalla sua spinta fagocitante, ma quello di risultare, come afferma nella battuta finale, "vincente su tutta la linea"; per questo decide di affidare il figlio intrattabile ad una Legge folle che prescrive il suo internamento forzato.
La madre descritta in Mommy rappresenta il doppio volto della patologia della maternità: da una parte l’eccessiva presenza, l’assenza di distanza, il cannibalismo divorante, dall’altra l’indifferenza, l’assenza di amore, la lontananza, l’esaltazione narcisistica di se stessa. Il problema della madre narcisistica non è più quello di separarsi dai propri figli ma di doverli accudire; non è più quello di abolirsi masochisticamente come donna nella madre, ma vivere il proprio diventare madre come un attentato, un handicap, anche sociale, al proprio essere donna.
La spinta divoratrice della madre coccodrillo si è trasfigurata nell’ossessione per la propria libertà e per la propria immagine che la maternità rischia di limitare o deturpare. Il figlio non è una proprietà che viene rivendicata, ma un peso dal quale bisogna sgravarsi al più presto. Si tratta di un'inedita patologia narcisistica del materno.
È in gioco la rappresentazione inedita di una madre che rifiuta giustamente il prezzo del sacrificio, rivendicando il diritto di una propria passione capace di oltrepassare l’esistenza dei figli e la necessità esclusiva del loro accudimento. È il dilemma di molte madri di oggi. Il problema non consiste in quella rivendicazione legittima e salutare, anche per gli stessi figli, ma nell'incapacità di trasmettere ai propri figli la possibilità dell'amore come realizzazione del desiderio e non come suo sacrificio mortifero.
Se la maternità è vissuta come un ostacolo alla propria vita è perché si è perduta quella connessione che deve poter unire generativamente l’essere madre all’essere donna. Se c’è stato un tempo, quello della cultura patriarcale, dove la madre tendeva a uccidere la donna, adesso il rischio è l’opposto; è quello che la donna possa sopprimere la madre.
Massimo Recalcati, La Repubblica, 28 febbraio 2015