Le quindici cose che il tuo terapeuta vorrebbe veramente che tu sapessi

La terapia può essere misteriosa e può intimidire, specialmente se non la conosci. Per questo motivo BuzzFeed (sito di informazioni “virali” fatto per essere condiviso sui vari social network) ha chiesto a tre psicologi americani che hanno esperienza con la psicoterapia, cosa loro vorrebbero che la gente sapesse sulla terapia.
I tre psicologi intervistati sono:
Stephanie Smith, Ph.D., clinical psychologist in Colorado;
Ryan Howes, Ph.D., clinical psychologist and professor at Fuller Graduate School of Psychology;
Lynn Bufka, Ph.D., associate executive director of Practice Research and Policy at the American Psychological Association.

1. Dare consigli non è proprio il lavoro del terapeuta

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Il terapeuta non é qui per dirvi se è necessario divorziare o lasciare il lavoro. “Il vero compito della terapia è quello di farvi conoscere meglio voi stessi, di cercare di rivedere il modo di pensare e di conseguenza di modificare qualche atteggiamento che non funziona“, dice Smith. “Il processo della terapia non è quello di dare buoni consigli.”
Certo, i terapeuti potrebbero dire quali sono le strategie da usare per far fronte a una malattia come la depressione, ad un sintomo come l’ansia o ad disturbo bipolare, ma se si sta discutendo di vostre decisioni personali di vita, il terapeuta é un facilitatore. Dice Howes, “Sei sicuro di voler venire in terapia per imparare ad avere più potere nel gestire la tua vita o vuoi lasciare che siano gli altri a farlo?”

2. Anche loro probabilmente sono o sono stati in terapia

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Non avrò mai fiducia di un terapeuta che non abbia fatto una terapia” dice Howes. E secondo questi esperti, gran parte degli psicologi sono anche loro in terapia, e se non lo sono in quel preciso momento, lo sono stati. Gran parte delle scuole di specializzazione in psicoterapia richiedono ai suoi specializzandi di sottoporsi ad un percorso terapeutico, dice Smith.

3. La maggior parte dei terapeuti non prescrivono farmaci

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Questo è in genere il lavoro di uno psichiatra o del medico – non di uno psicologo, dice Bufka. Tuttavia, il terapeuta si può coordinare con uno psichiatra o un medico di base per aiutare un paziente ad iniziare o terminare la terapia farmacologica.

4. Non c’è bisogno di essere diagnosticati con una malattia mentale per andare in terapia

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C’é un giudizio erroneo comune: “Che bisogna essere ‘pazzo’ per andare in terapia“, dice Howes. “Ci sono un sacco di motivi per cui la gente va in terapia che non hanno nulla a che fare con i disordini mentali. Quando la gente ci va, perché sta male, non è nulla di cui vergognarsi. Si va a chiedere aiuto e parlare con un esperto, proprio come lo si farebbe per qualsiasi altra malattia”.

Di solito – quando si è in difficoltà ma non completamente debilitato – le persone esitano ad andare in terapia perché si sentono come se non ne hanno bisogno. “Ma se ti senti bloccato o sopraffatto o non sei in grado di funzionare come si desidera, questo è un segno che c’è bisogno di parlare con qualcuno”, dice Bufka.

5. Il tuo terapeuta non parlerà di te al bar con i suoi amici

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La regola numero uno è la privacy“, dice Howes. “Perderei il mio lavoro se parlassi dei miei pazienti ad amici e parenti”. Tuttavia, i terapeuti discutono di casi particolari o temi più ampi con un piccolo gruppo di colleghi fidati, tale attività viene chiamata supervisione. “Abbiamo gruppi che si incontrano ogni due settimane o mensili per discutere i casi difficili e ottenere un feedback da colleghi”, dice Smith. “Si parla di casi, ma è una versione ridotta, senza informazioni di identificazione.”

6. Probabilmente il tuo terapeuta non ti ha mai cercato in Internet

Quello che capisco è che si tratta di un superamento di confini e quasi una violazione della privacy controllare in Google un paziente senza il suo consenso“, dice Smith.

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I terapeuti preferiscono parlare di come i pazienti costruiscono la seduta, che di forzarlo a parlare e di farsi spiegare della foto che hanno visto su Facebook durante il fine settimana. “Io non controllo su internet i miei pazienti perché la mia formazione dice che tutto deve avvenire nella stanza d’analisi, dice Howes.

7. Il tuo terapeuta non ti riconoscerà in pubblico a meno che non sia tu per primo a fare un cenno

Mano davanti

Il paziente non si deve preoccupare di incontrare il suo terapeuta in un ristorante e non deve nemmeno avere paura di sentire ‘Buongiorno, felice di vederla !’, mentre si é con qualcuno”. Il tipico comportamento di un terapeuta è che non riconoscerà mai in pubblico un proprio paziente a meno che non sia lui stesso a riconoscerlo e salutarlo, ed anche allora, non dirà mai di essere il suo terapeuta a meno che non sia il paziente a farlo per prima.
Quindi sentitevi liberi di dire ciao e introdurli come terapeuta/ insegnante di yoga / vicino di casa, o ignorare completamente. E’ qualcosa di cui si può parlare con loro già dall’inizio della consultazione se si è preoccupati.

8. Andare in terapia non è solo ricevere aiuto ma partecipare

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La terapia non è come andare dal dottore del pronto soccorso per un’infezione e prendere poi gli antibiotici. La terapia necessita di collaborazione, non sedersi passivamente ed aspettare i risultati. ” E’ un po’ deludente per i pazienti quando pensano che è questa la terapia” dice Howes “Vogliono che il terapeuta gli faccia una serie di domande, come una caccia al tesoro”.

Ma se il paziente è sufficientemente intelligente e vuole parlare di qualcosa che sente dentro o ha un’idea su cui vuole lavorare, questo fa diventare l’intero processo terapeutico più collaborativo e più efficiente.

9. La terapia non deve essere un impegno a lungo termine

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“Qualche volta, io penso che la gente esiti di iniziare una terapia perché si sentono come ‘se ci vado una volta ci andrò per 10 anni, tre volte alla settimana’ e sentono questa decisione molto pesante” dice Smith. La lunghezza e la frequenza della terapia è individuale e varia da persona a persona. Può essere una sola volta, una sessione di qualche mese, o più lunga in funzione di cosa il paziente sta cercando od attraversando.

Chiedere al terapeuta il suo approccio nelle prime sedute è una cosa che si può fare, dice Bufka. Quindi, domande come come sarà il trattamento, oppure quanto lungo sarà o quando finirò, sono domande che il paziente ha il diritto di fare.

10. Il diritto di “essere a proprio agio”: il più importante fattore quando si è in cerca di un terapeuta

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“Può essere visto come il migliore, il più qualificato terapeuta del mondo, ma se non ti trovi bene con lui, il trattamento non sarà efficace”, dice Smith”. La ricerca ci dice che molte variabili in terapia come il tipo di trattamento, il grado di istruzione del terapeuta, la lunghezza del trattamento hanno una grande influenza su di essa, ma il più grande fattore per il successo della terapia è che il paziente stai bene con il terapeuta.
Cosa le sembra? Si sente ascoltato, capito, rispettato? L’esperienza della terapia non è sempre divertente e godibile,” dice Smith. “Ma nel contesto, un soggetto si deve sentire sicuro, accettato, sentito e, a volte, messo in discussione.”

11. Concludere una terapia non vuole dire che tu non ne avrai più bisogno in futuro

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“In qualità di terapeuta, quello che spero è che alla fine del trattamento i pazienti si sentano che hanno migliorato il loro funzionamento, sia nei loro rapporti interpersonali o al lavoro o a scuola”, dice Bufka. “Che abbiano la percezione di essere al volante della propria vita e non afflitti da sintomi che stavano vivendo”.
Naturalmente, la vita passa e le cose cambiano, e solo perché ci si sente meglio per anni non significa che non si avrà bisogno di nuovo aiuto in futuro del terapeuta. “Ciò non significa che non avrai mai più bisogno di un aiuto o di supporto ancora, proprio come quando si va dal medico per delle cure primarie”, dice Bufka.

12. Se sei preoccupato che qualcosa sia inappropriato come abbracciarsi o chiedere cose riguardanti la vita privata, parlane

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Non tutti i terapeuti sono aperti ad abbracciare i propri pazienti, ma se non vi sentite a vostro agio, non sentitevi in imbarazzo di dirlo. “Il paziente deve essere libero di dire e chiedere ogni cosa” dice Howes. “Chiedere é lecito, poi sta al terapeuta decidere se rispondere o meno. Il paziente deve cercare di non essere se stesso un filtro o un censore”.

13. Loro non hanno tutte le risposte

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“Qualche volta la gente pensa che il terapeuta abbia la speciale abilità di vedere all’interno delle persone, ma questo non è vero” dice Bufka. “Abbiamo ricevuto un training per capire come sono fatte le persone, come si comportano e come le emozioni lavorano, e possiamo usare queste capacità per capire i nostri pazienti. Non abbiamo capacità magiche con le quali leggiamo istantaneamente dentro di loro, stiamo parlando di un processo di lavoro”.

14. Essere un terapeuta può essere un lavoro difficile

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Destreggiarsi tra pazienti ogni giorno e aiutarli a ripercorrere storie o eventi traumatici, può essere una professione molto scoraggiante. “Ovviamente può essere non semplice ascoltare storie difficili ora dopo ora, giorno dopo giorno ed avere ancora abbastanza energia per la propria famiglia” dice Smith. “E’ sfidante, ma è certamente gestibile”.

“Noi siamo professionisti, e come tali abbiamo il segreto prefessionale dice Howes.

15. Ma le possibilità ci sono e trovarle rende il lavoro terapeutico con i pazienti incredibilmente soddisfacente

Lacrime

“Quando la terapia funziona, e lo fa veramente, affronterai la vita in modo diverso. Sarai padrone di te stesso. E questo modo di affrontare e di essere ti accompagnerà per il resto della tua vita” dice Bufka.
“Io amo le persone” dice Smith “Amo imparare a conoscerle. Trovo le persone estrememente interessanti”.
“Ogniqualvolta sono in grado di vedere il processo di crescita in atto, mi rende estremamente felice” dice Howes “E spendo molto più tempo a crogiarmi questa felicità di quanto avessi mai pensato”.

 

Le neuroscienze confermano l’efficacia della terapia psicoanalitica

Nel settembre del 2015 é uscito un articolo, che qui di seguito vi propongo,  nel quale viene confermata da parte delle scoperte neuroscientifiche l’efficacia delle terapie psicodinamiche di orientamento psicoanalitico sul nostro cervello. La terapia della parola aumenta le connessioni tra i neuroni, e quindi la riorganizzazione del sé.

Freud

Le nuove tecniche di neuroimaging provano gli effetti sul nostro cervello delle terapie psicoanalitiche. E confermano le teorie del maestro viennese

Sigmund Freud aveva ragione: le nuove ricerche lo sostengono di Paola Emilia Cicerone

Saranno le neuroscienze a salvare la psicoanalisi?

Se fino a qualche anno fa le teorie di Freud sembravano in procinto di soccombere sotto il peso del progresso scientifico, oggi proprio le tecniche di neuroimaging le rivalutano, confermandone la validità. E dando vita a un nuovo filone di ricerca che indaga le basi fisiologiche dei cambiamenti prodotti nel cervello dalle terapie psicoanalitiche, con l’obiettivo di individuare le radici fisiologiche dei concetti base della psicoanalisi. Come racconta la scrittrice americana Casey Schwartz nel saggio “In the Mind Fields: Exploring the New Science of Neuropsychoanalysis”.

Una novità radicale?

In realtà Freud stesso nasce come neurologo, interessato a studiare la struttura del cervello. Anche se all’epoca le neuroscienze erano appena agli inizi, e l’esistenza stessa dei neuroni ancora in discussione. Oggi, osserva lo psicoanalista Amedeo Falci, coordinatore del gruppo Psicoanalisi e Neuroscienze della Società Psicoanalitica Italiana, «sono sempre di più gli psicoanalisti convinti che gli strumenti offerti dalle neuroscienze siano indispensabili per il futuro della psicoanalisi».

Per vedere come cambia il cervello prima e dopo la terapia si utilizzano soprattutto tecniche di visualizzazione come la tomografia a emissione di positroni (Pet) e la risonanza magnetica funzionale (fRmi). Lavorando, in genere, con pazienti che hanno seguito psicoterapie brevi a orientamento psicoanalitico, per evitare i tempi troppo lunghi della psicoanalisi classica, uno degli elementi che hanno rallentato la ricerca. «In questo modo è stato possibile verificare che la terapia della parola aumenta le connessioni tra i neuroni, e quindi la riorganizzazione del sé, inteso come unità cervello mente», dice Falci. Ovviamente le tecniche di imaging non permettono di fotografare il pensiero: «Servono a misurare l’attivazione delle diverse aree cerebrali, che devono comunque essere analizzate su base statistica». Ma anche così, i risultati sono più che interessanti.

Ricerche in corso sia negli Stati Uniti che in Italia

Negli Stati Uniti gli psicoanalisti Andrew Gerber della Columbia University e Bradley Peterson del Children’s Hospital di Los Angeles lavorano insieme da un decennio per trovare conferme fisiologiche di quanto avviene seduta dopo seduta. «Lavorando con i pazienti ci rendiamo conto quotidianamente che la loro mente cambia», spiega Gerber: «È un dato di fatto, la sfida è capire che cosa significhi».

È nato così un progetto che analizza i cambiamenti nel corso della terapia, una sorta di riassetto dell’attività cerebrale che l’analista americano, utilizzando un termine preso in prestito dalla metallurgia, paragona «alla “ricottura” di molecole surriscaldate e poi riportate a uno stato più stabile del precedente». E qualche mese fa il convegno del Centro Milanese di Psicoanalisi dedicato a “L’esperienza delirante” – un problema che riguarda i pazienti più gravi, una delle sfide che affronta la psicoanalisi contemporanea – ha dato spazio al neuroscienziato Georg Northoff, che ha mostrato grazie al neuroimaging come si manifestino all’interno del cervello le allucinazioni che i pazienti psicotici vivono come se si trattasse di una realtà esterna.

C’è anche chi è andato oltre. Come Mark Solms, lo psicoanalista e neuroscienziato sudafricano che ha revisionato la traduzione inglese delle opere di Freud. Solms ha osservato, in pazienti con una lesione all’emisfero destro del cervello, un atteggiamento distaccato nei confronti della realtà, simile quello che secondo il pensiero di Freud caratterizza l’atteggiamento narcisista. Arrivando così alla conclusione che è proprio l’emisfero cerebrale destro a definire i confini tra noi stessi e il mondo, e a distorcerli in caso di lesioni. Una tesi che ha discusso di fronte alla Società psicoanalitica di New York, uno dei baluardi della psicoanalisi tradizionale. «Oggi la neuropsicoanalisi è una realtà con cui si deve dialogare, riconosciuta anche dall’International Psychoanalitical Association, l’associazione che riunisce i freudiani», spiega Falci.

Cosa dice Otto Kemberg

Le teorie più innovative possono contare anche sul sostegno di grandi vecchi, come l’ottantaseienne Otto Kernberg, noto per i suoi studi sui pazienti con gravi disturbi della personalità – oltre che per il suo atteggiamento iconoclasta – che utilizza per le sue ricerche strumenti di neuroimaging. «La psicoanalisi è molte cose diverse: una teoria della personalità, una terapia e un metodo per investigare i fenomeni inconsci. Ma in passato è stata gravemente limitata dal fatto di aver ignorato le basi biologiche del funzionamento mentale, rinunciando a dialogare con le altre scienze», afferma Kernberg. Che in una ricerca pubblicata nel 2007 già mostrava come nei suoi pazienti si verifichino modifiche dell’attività cerebrale, coerenti con il loro comportamento: in particolare, un’intensificazione dell’attività dell’amigdala e una riduzione dell’attività di un’area della corteccia prefrontale che gioca un ruolo importante nell’inibizione.

Conclusioni

Se l’obiettivo di Freud era dimostrare l’importanza dell’inconscio, le neuroscienze stanno confermando che gran parte dell’attività mentale si svolge sotto il livello di coscienza: «La sfida ora è quella di spiegare con gli strumenti delle neuroscienze cosa sia la coscienza», osserva Falci. E gli alfieri della neuropsicoanalisi sono convinti che lo scopritore dell’inconscio sarebbe dalla loro parte. «Freud attendeva con ansia il momento in cui le sue teorie si sarebbero potute integrare con scoperte neuroscientifiche», conclude Peterson: «Se oggi fosse vivo, lavorerebbe con noi».

Paola Emilia Cicerone – tratto da L’Espresso

Navigare tra piacere e dovere

“Chi disprezza la chiave non aprirà mai la porta”

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Sigmund Freud ci aiuta a comprendere perché le nostre vite sono così piene di confusione e sofferenza. Ci spiega perché la vita è dura e come “farci i conti”. E allora tutti noi potremmo usare un po’ di più le idee di Freud per cercare di capire meglio noi stessi.

Il video é molto bello e chiaro nello spiegarci i fondamenti per la comprensione di noi stessi che hanno caratterizzato il padre della psicoanalisi.

Video dell’Internazionale

La depressione oscura il nostro futuro

Articolo informativo a cura di Sabina Scattola

Il conto alla rovescia è iniziato ormai da 10 anni, ma pochi in Italia se ne sono accorti. Entro il 2020, secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms), che diede il primo allarme nel 2004, i disturbi depressivi diventeranno la seconda causa di “disabilità lavorativa” dopo le malattie cardiovascolari. Nel frattempo, a causa della crisi economica, la situazione è drammaticamente peggiorata. E se prima l’età media di insorgenza della malattia era tra i 20 e i 40 anni, oggi sono in aumento le manifestazioni precoci o tardive (in adolescenza o dopo i 50 anni). Circa il 20% della popolazione mondiale presenta, secondo l’Oms, un quadro di “umore instabile” al quale è obbligatorio prestare la massima attenzione.

Ecco perché l’Italia, insieme a Belgio, Francia, Spagna, Germania, Regno Unito, Svizzera, Ungheria, Repubblica Ceca, Slovacchia, Slovenia, Portogallo, Grecia, Serbia e Croazia, da 10 anni dedica alla depressione una Giornata di sensibilizzazione Internazionale, che si svolge solitamente nel mese di ottobre. Il focus della prima edizione é stato ‘Amore e depressione’, dedicato alle problematiche familiari e di coppia che scaturiscono dalla patologia.

L’Oms ha diffuso un video, “living with back dog”proprio per spiegare cosa significa vivere con la malattia che colpisce indistintamente chiunque: 2,6 milioni di persone in Italia, oltre 350 milioni nel mondo. Un disturbo debilitante ma curabile.

Qui in allegato trovate un libretto guida sui disturbi depressivi dal titolo “Parliamone! Scopri l’origine della tua depressione e come affrontarla”

“E’ una malattia vera e propria – spiega Claudio Mencacci, direttore del dipartimento di Neuroscienze dell’ospedale Fatebenefratelli di Milano – uno squilibrio dell’umore caratterizzato da sentimenti di tristezza di diversa gravità, da senso di inadeguatezza, mancanza di speranza, sensazione di malessere profondo, sensi di colpa e dubbi. Temporanei momenti di sconforto e melanconia sono comuni a tutti gli esseri umani, ma occasionali e di breve durata. Persone addolorate per una perdita o un lutto possono sperimentare sintomi depressivi per poi tornare alla piena normalità dopo qualche settimana. Ma quando tristezza, sfiducia e sconforto durano nel tempo o sono intensi e gravi, e comportano notevoli e significative ripercussioni sulla vita sociale e lavorativa, siamo in presenza di una depressione clinica“. Il decorso spontaneo avviene in un arco di tempo che varia dai 6 mesi a qualche anno.
Pensare di poter guarire da soli, senza utilizzare le moderne terapie farmacologiche o ricorrere a una psicoterapia, prolunga inutilmente il periodo di sofferenza.

“I disturbi dello ‘spettro dell’umore’ (disturbi depressivi e disturbi bipolari) sono molto diffusi, più di quanto si pensi, e si tratta di patologie spesso sottovalutate, non diagnosticate o mal curate; non fare adeguatamente diagnosi e trattamento può portare a varie problematiche di salute pubblica, con conseguenze anche serie come abusi di sostanze, crisi lavorative, rischi suicidari”.

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L’impatto sul lavoro. Secondo il report internazionale Impact of Depression at Work in Europe Audit, in Europa un dipendente su 10 ha perso il lavoro perché affetto da depressione e in tutto a causa della malattia sono state perse oltre 21.000 giornate di lavoro. Un lavoratore su dieci in Europa ha preso permessi perché depresso. Nel 2012 il centro Ipsos Mori ha condotto una valutazione europea su oltre 7.065 adulti fra 16 e 64 anni, operai o manager, che avevano lavorato nei precedenti 12 mesi: dai risultati, è emerso che il 20% era malato di depressione.

850.000 morti ogni anno. “In Italia – spiega Luigi Janiri, dirigente Medico Consultazione psichiatrica (UOC) del Gemelli di Roma – la prevalenza della depressione maggiore e della distimia (una forma di malattia cronica) nell’arco della vita è dell’11,2% (14,9% nelle donne e 7,2% negli uomini). Negli Stati Uniti, da cui proviene il Manuale Diagnostico del DSM-5, si riporta una stima della depressione maggiore (escluse quindi le forme lievi, a prevalente componente ansiosa o nevrotica, e le reazioni di disadattamento) del 7% nella popolazione generale, dato che può però triplicarsi nella fascia d’età giovanile fino a 30 anni e nel sesso femminile. Nella sua forma più grave la depressione può portare al suicidio ed è responsabile di 850.000 morti ogni anno”.

“Secondo gli studi – aggiunge Mauro Mauri, Direttore Clinica Psichiatrica II Università di Pisa (AOUP) la frequenza della malattia è doppia nel sesso femminile. Sulla popolazione italiana, le ricerche più accreditate rivelano che la probabilità di ammalarsi nel corso della vita è del 6,5% nei maschi e del 13,4% nelle femmine e in generale le donne hanno un rischio quasi doppio di essere colpite (64% vs 36%). Va infine considerato che spesso i casi di depressione non vengono tempestivamente diagnosticati, per cui i dati sono sottostimati, e che tra l’esordio dei sintomi e la diagnosi spesso corrono 3-4 anni”.

L’importanza dello Stato. La Società Italiana di Psichiatria ha più volte chiesto al governo di non effettuare tagli ai costi riservati alla salute mentale, ma semmai di potenziare i servizi a favore, come hanno fatto paesi del nord Europa dalla Svezia alla Finlandia. Dove tale potenziamento è stato ignorato, come in Spagna, ogni aumento dell’1% nel tasso di disoccupazione ha portato una crescita dello 0,79% dei suicidi. “Le persone con difficoltà finanziarie sono da 2 a 4 volte più a rischio di sviluppare depressione in un periodo di 18 mesi rispetto alle altre – spiega Janiri – L’indebitamento e la disoccupazione contribuiscono fortemente a questo malessere, di cui l’aumento del tasso dei suicidi è solo uno dei drammatici indicatori. Altri studi, effettuati in Grecia, in Spagna e anche in Italia, confermano l’attualità del legame tra la crisi e la depressione”.

Di contro, laddove vengono adottate buone pratiche di protezione sociale, i casi di malattia e di suicidio diminuiscono. Eppure, nonostante questi siano ormai dati acquisiti, molti paesi europei, di fronte alla pressione della comunità finanziaria internazionale che spinge a una riduzione dei costi, operano tagli drastici a danno del servizio sanitario nazionale: un esempio per tutti, la Grecia, che tra l’altro ha effettuato queste manovre economiche a fronte di un aumento della richiesta dei servizi di salute mentale. E’ stato calcolato, spiega ancora Mencacci, che nell’Unione Europea, per ogni 100 euro pro capite spesi in programmi di supporto alla famiglia, si ha una riduzione dello 0,2% del legame tra disoccupazione e suicidio, senza contare gli studi che dimostrano come interventi di supporto finalizzati al benessere di genitori e figli abbiano una vera e propria azione preventiva rispetto ai casi di patologia, con un guadagno di lungo periodo superiore rispetto ai costi di breve periodo.

Il legame con la cronaca. Spesso la depressione, accanto alla psicosi, è responsabile di efferati delitti: pensiamo a quella post-partum con infanticidio o alle stragi familiari che spesso si concludono con il suicidio dell’autore della strage. “In questi casi – spiega Janiri – si ipotizza che gli omicidi compiuti rappresentino una sorta di ‘suicidio allargato’ alle persone amate e che si voglia, in modo delirante, proteggere le vittime da un mondo esterno ‘cattivo’. Spesso nella storia di questi autori di delitti si ritrovano eventi o situazioni traumatiche nell’infanzia o anche in tempi recenti “. Chiaramente, le persone affette da depressione che vivono in paesi con un elevato livello di stigmatizzazione della malattia, considerata spesso come socialmente pericolosa, corrono un rischio molto più alto di andare in tilt. “Ecco perché, in molti casi – spiega Mencacci – la depressione si lega a doppio filo a condotte suicidarie, specialmente se il soggetto vive in solitudine o si sente, in quel periodo della sua vita, abbandonato a se stesso”.

I dati dell’Osservatorio nazionale sull’impiego di farmaci pubblicati indicano che, a partire dall’inizio degli anni 2000, il trend delle prescrizioni di antidepressivi è in costante aumento di anno in anno. Emerge che l’82% dei pazienti depressi è in terapia solamente farmacologica, mentre il 14% si cura sia con farmaci che con la psicoterapia, e questo é un problema perché numerose pubblicazioni internazionali dimostrano la maggior efficacia della terapia combinata o integrata: farmacoterapia e psicoterapia.
Va ricordato che solo il 25% in Europa riceve adeguato trattamento per la depressione di cui soffre”.

L’introduzione di antidepressivi sempre più mirati alla cura delle varie forme di depressione e con sempre meno effetti collaterali, congiuntamente all’espansione del fenomeno depressivo (in parte dovuto alla sua maggiore riconoscibilità e diagnosticabilità), sta conducendo a una maggiore diffusione dell’uso di questi prodotti. Oggi in Italia gli antidepressivi delle generazioni successive a quella dei vecchi triciclici e IMAO sono spesso prescritti anche dai medici di base. Gli psicofarmaci antidepressivi delle nuove generazioni, inoltre, sono indicati anche per diversi disturbi d’ansia e del comportamento.

I centri in Italia. Quelli pubblici sono i CSM Centri di Salute Mentale territoriali dei Dipartimenti di Salute Mentale che offrono sempre più accurati trattamenti farmacologici per i disturbi affettivi e, in particolare, per la depressione, una bestia nera che con le giuste terapie si può certamente sconfiggere.
Per una psicoterapia occorre rivolgersi privatamente invece ad una figura professionale debitamente formata come uno psicologo-psicoterapeuta, dato che nel Servizio pubblico da anni, per questioni di tempo (dovuto alla numerosità degli accessi e alle scarsità di risorse umane curanti) e di budget, non viene più praticata se non in forma al più di sedute di gruppo.

Oltre ad una depressione clinica diagnosticabile secondo i criteri del DSM-IV o DSM V (e di cui si trova una versione divulgativa nel Libretto del paziente in allegato “Parliamone! Scopri l’origine della tua depressione e come affrontarla” vanno fatte alcune precisazioni, dato che l’argomento è vasto e complesso e potrebbe prestarsi a fraintendimenti.
“Dolore” e “tristezza” sono due stati affettivi che ci accompagnano tutta la vita, sono esperienze comuni. Tracce di “dolore” e “tristezza” le troviamo in tutti i pazienti nonostante le più diverse espressioni fenomeniche del loro disagio. Insomma la dimensione depressiva la troviamo sempre, assieme alla sorella ansia, questo però non significa che tutti i pazienti sono depressi!
Esiste una reazione depressiva conseguente ad una situazione contingente accaduta, di durata transitoria, un vissuto depressivo (nucleo) rilevabile in ogni paziente che può rimanere latente a lungo, o per tutta la vita, ma non per questo si può definire quell’individuo depresso, e un insieme di segni e sintomi che invece costituisce un vero e proprio disturbo depressivo.
Un nodo depressivo (o nucleo depressivo ) è presente in tutti i pazienti. Ma cosa significa? Come si è formato? Quali sono le risultanti e le dinamiche che hanno fatto sì che esso si avviluppasse?
Una psicoterapia ad orientamento psicoanalitico può aiutare a rispondere a questi interrogativi di fondo.
Come psicologa-psicoterapeuta ad orientamento psicodinamico (psicoanalitico) è mio interesse occuparmi di ciò che trascende l’area puramente sintomatica, di pertinenza dello psichiatra per un trattamento farmacologico, ossia nel corso della consultazione iniziale, che è già in parte un inizio di terapia, per me è fondamentale fare conoscenza del sistema di pensiero di quella persona e delle modalità relazionali con se stessa e gli altri, tenuto conto della irripetibilità e unicità di quella persona, per cui a parità delle stesse manifestazioni sintomatologiche di tipo depressivo in due persone ci possono essere strutture di personalità diverse con modi di funzionare diversi, più o meno gravi, da qui la tecnica psicoterapica non è la stessa con tutti.
Che cosa si intende per struttura di personalità? L’insieme dei tratti in interazione tra di loro che danno ragione ad un modo di essere soggettivo, tipico di quella persona.
C’è sempre un “tratto” (tratto dominante) che domina sugli altri (“tratti secondari”) o caratterizza di più la personalità e permette di fare una diagnosi, non fotografica (diagnosi sintomatica), ma più profonda (diagnosi psicodinamica), della struttura di personalità e della sua organizzazione o funzionamento a seconda di come interagiscono questi tratti nelle due dimensioni o aree di vita fondamentali: l’area intrapsichica del mondo interno (il rapporto con se stesso attraverso l’immagine di Sé, gli oggetti interni, gli affetti, i valori di riferimento e l’esame di realtà) e l’area interpersonale ossia del mondo esterno (es. altri e sociale).
Vorrei precisare che possono coesistere “tratti” che possono dare segni di Sé in momenti diversi della vita. Questo ci dice che siamo di fronte alla complessità del mondo psichico e rimanda alla originalità e irriducibilità della persona di cui sopra si accennava.
La struttura di personalità è anche la modalità migliore possibile che abbiamo trovato per sopravvivere o per evitarci sofferenze ancora maggiori (finalità adattiva).
Ognuno è affezionato al proprio modo di essere ed è spaventato che il cambiamento non dia le garanzie finora avute (es. “le resistenze del paziente” a rivolgersi allo psicoterapeuta, ad iniziare un trattamento, ecc.).
Ci vuole rispetto della modalità di essere della persona e semmai vi siano delle resistenze “contrattare” assieme se si può essere diversi rispetto all’attuale e funzionare un po’ meglio in certe aree di vita.
A volte infatti capita che per evitare la sofferenza e il dolore psichico finiamo per procurarcelo di più.

ARTICOLAZIONI DELLE ESPRESSIONI DEPRESSIVE

Determinanti attive che mantengono il circolo depressivo sono l’ostilità, l’aggressività, il senso di colpa e il narcisismo.
Freud in “Lutto e Melanconia” (1915) apre alla complessità della comprensione di questo tema paragonando e contrapponendo le condizioni depressive (“melanconia”) al lutto normale; nelle normali reazioni di lutto si percepisce il mondo esterno impoverito in qualche aspetto importante (per es. la perdita di una persona di valore), mentre nelle condizioni depressive ciò che si sente perduto o danneggiato è una parte del Sé. Per certi versi, quindi, la depressione è l’opposto del lutto e le persone che vivono un lutto normale non diventano depresse, anche se nel periodo che segue il lutto o la perdita sono profondamente tristi (N. McWilliams, 1999). Inoltre Freud individua, tra gli altri, due meccanismi difensivi usati dai depressi in modo potente e strutturante: l’introiezione e la re-introiezione dell’aggressività dell’oggetto (o rivolgimento contro la propria persona). Clinicamente, si tratta di operazioni importanti da capire per modificare la psicologia depressiva di una persona.
Riprendendo con ordine le determinanti di cui si parlava sopra una di queste è l’ostilità, per cui se l’oggetto d’amore è stato molto investito, se su di esso si è affidato il proprio futuro e il proprio appagamento narcisistico e poi viene svalutato esso svilisce il Sé, noi stessi, togliendo valore a una parte del Sé (per l’interiorizzazione di questo oggetto reale prima idealizzato e poi svalorizzato); un’altra importante componente che troviamo nella depressione è l’aggressività negata che comporta una relazione d’amore all’insegna della compiacenza che può sfociare nella frustrazione e in un rapporto di tipo masochistico a livello morale e non solo.
La terza determinante che troviamo è il senso di colpa, che Freud chiamava “indegnità” per gli “impulsi rimossi” in quanto inaccettabili dal Super-Io (il ns censore morale interno) e dalla coscienza. Ricordo che l’impulso può essere rimosso per due motivi fondamentalmente:
1. per la qualità intrinseca dell’impulso (oggettività dell’impulso);
2. per la soggettività di quella persona, quindi entra in gioco la codifica di quella persona chiamando in causa l’istanza super-egoica.
Due sono le direzioni da prendere da parte dello psicoterapeuta psicodinamico: una esplorativa del senso di colpa e una esplorativa del Super-Io.
Che cosa significa esplorare il Super-Io in un paziente? Se questo Super-Io si è formato per induzione genitoriale e quindi per introiezione dell’oggetto o se si tratta di un Super-Io da identificazione con un membro della famiglia o ancora esso è il frutto di esperienze infantili. Insomma si tratta di capire quale determinante o quale quadro situazionale ha convocato quel Super-Io. In altre parole il soggetto che abbiamo difronte rispetto a quale vissuto angoscioso si è adeguato? Un genitore sadico o un genitore abbandonico e anafettivo?
Se la determinante è il senso di colpa preso in prestito da una colpevolizzazione genitoriale (identificazione) come caratteristica fondante della relazione originaria ci sarà una tendenza continua alla riprovazione del Sé, per l’induzione genitoriale di cui resta traccia nel nostro inconscio che il bambino è cattivo per quello che può aver fatto in una determinata circostanza e che poi nel tempo si generalizza in situazioni analoghe.
Noi facciamo dei tentativi per liberarci da questa sofferenza ad es. “proiettando la colpa”, per cui il soggetto ritiene che la colpa sia sull’oggetto esterno e lo attacca aggressivamente pensando che così si può liberare.
L’ultima componente di cui parlerò è la determinante narcisistica nello stato depressivo, per cui al senso di vergogna, sentimento dominante della personalità narcisistica, si aggiunge il senso di colpa per aver danneggiato l’oggetto (reale o fantasticato) con il proprio fallimento. Il tutto sfocia in un vissuto di inadeguatezza.
Si pensa che il sentimento di vergogna sia in rapporto con l’istanza del Super-Io, rapporto finalizzato al raggiungimento dell’Ideale dell’ Io. In questi casi si parla di un Super-Io sadico e patologico e quindi l’intervento psicoterapico sarà volto a “smollare” questa morsa implacabile. Non sempre la condanna è data da un Super-Io sadico e persecutorio come quello appena accennato e peraltro funzionale al mantenimento di un alto Ideale dell’Io; in assenza di un Ideale dell’Io sembra che non ci sia scampo, perché qualunque cosa è sbagliata e quindi ci si arrende ad un Super-Io implacabile, per cui la persona capita che pensi di essere una nullità evitando tutte le possibili iniziative.

Capiamo bene come in ogni campo siano i dettagli che fanno la differenza. Lo stesso vale per i fenomeni psichici, per cui due situazioni simili possono esprimere due cose diverse.
La psicoterapia ha proprio questo fine di aiutare a comprendere ciò che la persona fino ad ora non aveva mai pensato aiutandola ad individuare quale tipo di impedimento intrapsichico c’era che le impediva di vivere più liberamente e governava il suo modo di funzionare.
La psicoterapia è un dialogo che attiene all’universo delle relazioni che ha finalità, modalità e caratteristiche diverse da tutti gli altri.
Il terapeuta in questa modalità dialogica deve arrivare alla condivisione con il paziente così che lo stesso faccia propria questa modalità di interrogarsi sul non detto o il parzialmente detto ossia sull’elemento non conoscitivo, aiutandolo in una modalità di lettura di se stesso e della realtà del mondo.

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Le testimonianze: “Vedevo solo buio” a cura di SARA FICOCELLI

La drammatica depressione post-partum di Giovanna. “Ho sempre sofferto di una lieve depressione stagionale: durante l’inverno percepivo sempre una flessione dell’umore verso il basso ma non ci avevo mai fatto veramente caso, era qualcosa di stabile, accertato, che faceva parte della mia persona. Ho capito cosa fosse la depressione solo dopo la nascita di mia figlia. Ritengo che la mia predisposizione, insieme alle alterazioni ormonali del parto, abbiano funzionato da catalizzatori insieme ad una situazione familiare non idilliaca. Avevo tra le braccia la mia meravigliosa bambina ma non ero felice, al contrario non mi sentivo all’altezza, ero triste, piangevo spessissimo, non riuscivo a vedere un bel futuro ma solo la “fine della mia vita”, eppure avevo desiderato molto quella bambina e ora che l’avevo tra le braccia ero spaventata. Mi sentivo inadeguata e molto sola. Prendevo la bambina e dormivo con lei tutto il giorno, poi mi svegliavo e piangevo e poi di nuovo così, per giorni.
La diagnosi è stata semplice perché mio marito lavora nel settore, ma all’inizio ha ritenuto che la cosa potesse passare da sola in pochi giorni. Invece tutto mi creava fatica. In poche settimane sviluppai il terrore di rimanere sola con la bambina, temevo che se si fosse messa a piangere non avrei saputo come fare. Una notte mi alzai per la poppata, ero stravolta dalla fatica, andai da mio marito e gli dissi: voglio andare via. Lui mi rispose: con la bambina o senza? e io dissi “senza”. Lì capì che non stavo bene e l’indomani parlammo di una terapia. Il primo farmaco che presi fu la fluoxetina ma in pochi giorni mi diede un effetto collaterale: la bulimia, può succedere. Lo cambiammo subito con la paroxetina, uno dei più comuni e tollerati SSRI. La salvezza. La luce. Non c’è nulla di cui vergognarsi a prendere un farmaco. Se hai la febbre prendi una tachipirina, se hai il diabete l’insulina, ma in Italia c’è un grosso tabù e quando non funziona bene la mente si teme l’etichetta del ‘matto’. Ricordo una vicina di casa di infanzia, una depressione durissima durata quarant’anni. E’ tornata ad essere una persona quando si è convinta a prendere le medicine ma nel frattempo ha perso una vita intera e una figlia che non ce l’ha fatta a starle vicino. Perché delle forme gravi, che durano anni, sono vittime anche i familiari.”.

 

Gli 8 segnali per cui dovresti andare dallo psicoterapeuta

Rielaborazione a cura dr.ssa Sabina Scattola, tratta dal blog online ‘Huffington Post’

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Credit foto: Kaspiic

A tutti capita di attraversare periodi di stress, tristezza, lutti e situazioni conflittuali, e quando ci si sente giù può esser difficile rendersi conto che è arrivato il momento di affrontare il problema rivolgendosi a un professionista. E infatti, a quanto pare, proprio coloro che più trarrebbero beneficio da un qualche genere d’aiuto terapeutico tendono a non andarne alla ricerca: nonostante il fatto che in America un adulto su cinque soffra di una qualche forma di disturbo psichico, solo una fetta che va all’incirca dal 46 al 65 per cento di coloro che soffrono di problemi di natura medio-grave sono attualmente in cura — a rivelarlo è la Substance Abuse and Mental Health Services Administration. E in Italia la situazione é ancora più preoccupante.
L’individuazione e la cura delle varie forme di sofferenza psichica diagnosticabili rappresenta una priorità per chi sta male sia in forma evidente che per chi apparentemente non lo dimostra, in quanto rifiutando l’aiuto dei professionisti “chi sta male consapevolmente che non” potrebbe finire addirittura col peggiorare la propria situazione.
“Prima si va in cerca d’aiuto, più facile è affrontare il problema”, sostiene lo psicologo Daniel J. Reidenberg. “In tal modo ci vorrà meno tempo, uno sforzo minore e una minore quantità di stress”.
Gli psicologi attribuiscono il basso tasso di persone in cura allo stigma e a tante leggende metropolitane connesse alla figura dello psicoterapeuta e dello psicoanalista. Fra queste il timore che solo i “matti” abbiano bisogno della psicoterapia, che il fatto di accettare quell’aiuto rappresenti un segno di debolezza, o che le cure finiscano per consumare parecchio tempo e denaro. Tutto ciò non è vero, ci dice la psicologa Mary Alvord, Ph.D. E lo sostengo anch’ io come professionista: “una cura non implica necessariamente il dover andare in analisi quattro volte a settimana; per esempio io ho dei pazienti che vengono in studio solo per due-tre consulti, o per una terapia di sostegno a due sedute al mese”, altri che fanno una terapia ad una seduta a settimana, dipende perché ogni persona é una storia diversa. E una storia é sempre un viaggio nuovo, più o meno lungo” (S. Scattola).
“La gente crede che finirà per impantanarsi lì, ma questo non è affatto vero”.
Reidenberg argomenta: “Le malattie mentali vengono ancora ingiustificatamente stigmatizzate, ma qui non stiamo neanche parlando di malattia mentale, stiamo parlando della vita, e di quanto essa possa risultare difficile. I benefici della psicoterapia [possono esser visti] più al pari degli esercizi anti-stress, o di un’alimentazione sana — cioè soltanto delle strategie che aiutano a facilitare la propria vita, e contribuiscono a rimuovere le cause dello stress”.
Quali sono allora quei segni che potrebbero indicare che per noi è arrivato il momento di fissare un appuntamento? Abbiamo chiesto a Reidenberg, Alvord e alla psicologa Dorothea Lack di svelarci alcuni di quegli indicatori che tutti possiamo tener d’occhio nei momenti in cui ci sentiamo giù. Il punto fondamentale? È che è semplicemente questione di valutare fino a che punto una persona é in grado di reggere — se tutto ti fa sentire sovraccaricato, o incide negativamente sulla propria capacità di funzionare rientra perfettamente fra le competenze di uno psicoterapeuta o di uno psicoanalista.

1. Tutte le sensazioni che provi sono molto intense…

The intense look

“Tutti tendiamo ad arrabbiarci o a rattristarci, ma quanto intensamente accade, e quanto spesso?”, “e ciò è in grado di limitare o alterare significativamente la propria capacità di funzionare con se stessi e con gli altri, nel quotidiano in famiglia, al lavoro, con gli amici, ecc.?”.
Sentirsi regolarmente travolti dalla rabbia o dalla tristezza potrebbe indicare una problematica di fondo, ma c’è anche un’altra forma di sensazioni intense da tenere d’occhio: la tendenza ad essere catastrofistici. Quando ti si presenta un problema inatteso, ti senti forse immediatamente incline a dare per scontato che possa accadere solo e soltanto il peggio? Quest’intensa forma d’ansia, che vede ogni singolo motivo di preoccupazione ingigantito e trattato come se fosse l’esito più realistico, può risultare particolarmente debilitante.
“Può farti sentire paralizzato, portare a degli attacchi di panico, e perfino far sì che tu cerchi di evitare di affrontare i tuoi problemi”. “Se l’orizzonte della tua vita tende a chiudersi perché stai cercando di evitare tante cose, allora è probabilmente arrivato il momento di cercare l’aiuto di qualcuno”.

2. Hai sofferto un trauma, e sembra che proprio non riesca a smettere di pensarci…

Il dolore provato in seguito a un lutto in famiglia, alla fine di una storia o alla perdita di un posto di lavoro può bastare, per aver bisogno di un po’ di terapia. “Tendiamo a supporre che questo genere di sentimenti possano scomparire da soli” ma non è sempre così. Il lutto che segue una perdita può incidere sulla propria capacità quotidiana di funzionare, e perfino farti ritrarre dai tuoi amici. Se ti rendi conto di non riuscire a impegnarti nella tua vita, o se coloro che hai intorno hanno notato che ti stai allontanando da loro, potresti volerne parlare a qualcuno per sviscerare il modo in cui quell’evento drammatico ancora ti pesa. Dal lato opposto ci sono anche quelle persone che reagiscono a una perdita con comportamenti di natura più maniacale: un’ iperfrequentazione degli amici e dei conoscenti, o un’incapacità di dormire. Anche quelli sono segni che è arrivato il momento di richiedere l’aiuto di un professionista.

3. Provi dei ricorrenti e inesplicabili mal di testa, mal di stomaco o un abbassamento delle tue difese immunitarie…

Sick woman blowing her nose

“Quando siamo emotivamente sconvolti, la cosa è in grado di provocare degli effetti sul nostro corpo”. Le ricerche confermano il fatto che lo stress sia in grado di manifestrasi attraverso una vasta gamma di problemi fisici, dai disturbi cronici allo stomaco ai mal di testa, ai raffreddori frequenti o a un impulso sessuale ridotto. Reidenberg aggiunge che reazioni riportate di natura più insolita, come spasmi muscolari comparsi dal nulla (e cioè: non in seguito ad un esercizio fisico intenso) o dei dolori al collo possono altresì indicare un accumulo di stress o un disagio emotivo.

4. Per affrontare il tuo problema sei ricorso all’uso di una qualche sostanza…

Se ti ritrovi a bere o a fare uso di sostanze chimiche in quantità superiori o più frequentemente — oppure a pensare più spesso a bere o ad assumere droghe — potrebbero essere tutti segnali che ti piacerebbe attenuare delle sensazioni che invece dovresti affrontare. Quella sostanza potrebbe essere anche il cibo stesso. Come osserva Reidenberg i cambiamenti d’appetito potrebbero rappresentare un ulteriore segnale che non tutto sta andando per il verso giusto. Sia mangiare troppo che non voler mangiare potrebbero rappresentare il segno che una persona sta affrontando una situazione di stress, o che si pone in maniera conflittuale rispetto al desiderio di prendersi cura di sé.

5. I tuoi risultati sul lavoro stanno peggiorando…

Frustrated Caucasian woman using laptop

Fra coloro che si ritrovano ad affrontare questioni di natura emotiva o psicologica, un cambiamento nella qualità della propria performance lavorativa è cosa comune. Potresti sentirti lontano dal tuo lavoro anche se magari un tempo ti faceva sentire felice. Aldilà dei cambiamenti nel livello di concentrazione e di attenzione, potresti ricevere dei feedback negativi da parte dei tuoi superiori o dei tuoi colleghi, indicanti un peggioramento nella qualità del tuo lavoro. E anche questo potrebbe il segno che è il momento di parlare a un professionista.

6. Ti senti distante da tutte quelle attività che prima amavi svolgere…

Se senti che i posti che amavi frequentare, gli appuntamenti con gli amici e gli incontri di famiglia hanno perso quella gioia che un tempo ti suscitavano, può essere il segno che c’è qualcosa che non va. Se ti senti disincantato, se avverti l’assenza di uno scopo, di un senso, o se provi una generale sensazione d’infelicità, andare da un analista potrebbe aiutarti a riacquistare un po’ di lucidità, o a incamminarti lungo un’altra strada.

7. I tuoi rapporti stanno attraversando un momento difficile…

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Trovi difficoltà nel comunicare come ti senti davvero — o anche solo a capirlo tu stesso in primo luogo? Se ti senti regolarmente infelice quanto ti rapporti alle persone che ami, secondo Alvord per te potrebbe essere arrivato il momento giusto per una terapia familiare o di coppia.
“Siamo in grado d’aiutare la gente a trovare la forza necessaria per riuscire a esprimersi meglio — e alla gente noi insegniamo anche che non dipende solo da ciò che si dice, ma dal linguaggio del corpo e dall’atteggiamento complessivo che si adotta”, sostiene Alvord.

8. I tuoi amici ti hanno detto che si sentono preoccupati…

A volte gli amici sono in grado di osservare dei comportamenti difficili da percepire dall’interno, quindi vale la pena prendere in considerazione il punto di vista di coloro che abbiamo intorno a noi. “Se nella tua vita c’è chi ti è venuto a dire qualcosa del genere: ‘Ne stai parlando con qualcuno?’ o ‘Va tutto bene? Sono preoccupato per te — quello è un segnale che forse dovreste ascoltare i loro consigli”, suggerisce Reidenberg.

Questo post è apparso per la prima volta su The Huffington Post US in agosto 2015 ed è poi stato tradotto dall’inglese da Stefano Pitrelli nello stesso mese di c.a.

Psicoterapia: di gruppo, di coppia e individuale… alcune informazioni per orientarsi sui vari trattamenti

A cura di Sabina Scattola

Secondo gli ultimi dati dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), un italiano su 5, almeno una volta nella vita, si rivolge ad un professionista della mente per curare disturbi più o meno seri.
Ma come si sceglie la terapia più adatta? Un presupposto fondamentale al di là di ogni singolo indirizzo, é che vi sia sintonia fra il paziente e il terapeuta.
Ricerche in merito hanno dimostrato che i cosiddetti “fattori a-specifici”, legati in particolare alle caratteristiche di personalità del terapeuta, avrebbero una significativa efficacia sui risultati del trattamento, addirittura di gran lunga più incidente dei cosiddetti “fattori specifici” legati alla tecnica della teoria di riferimento (es. l’interpretazione per la psicoanalisi, il decondizionamento per il comportamentismo, ecc.).

Sulla tipologia di trattamento che scaturisce come proposta di intervento dopo un’attenta e approfondita fase di consultazione iniziale paziente-terapeuta, a scopo conoscitivo e divulgativo propongo tre principali psicoterapie…e quando ricorrere, tenendo ben a mente che si tratta di indicazioni molto generali perché ogni persona ha un suo modo d’essere, di funzionare, unico e irripetibile, frutto di una storia diversa da tutte le altre storie personali, pertanto a parità di manifestazioni sintomatiche può aver bisogno di aiuti diversi.

PSICOTERAPIA DI GRUPPO

PSICOTERAPIA DI GRUPPO
La terapia di gruppo per la sua caratteristica di aiuto reciproco funziona bene in tutti casi di dipendenza, non solo quelle legate a sostanze o a comportamenti compulsivi (come gioco, shopping, ecc.) ma anche quelle affettive. Un buon esempio sono persone che vivono “amori impossibili” in cui riversano ogni energia e finiscono per annullare se stesse. Il confronto diretto con altre storie, altre personalità, altri ruoli aiuta a riconoscere e a smantellare schemi mentali che fanno star male. Questa terapia é adatta anche per chi si sente di aver perso la propria identità, non sa quale strada prendere nella vita o pensa di aver bisogno di ricominciare da zero. Il gruppo ha in sé una grande forza propositiva che aiuta ogni partecipante a riscattarsi.

coppia

PSICOTERAPIA DI COPPIA
La psicoterapia di coppia non mira a mantenere per forza uniti i due patner, ma a trovare la soluzione migliore per loro. Con l’aiuto del terapeuta si analizzano i comportamenti di entrambi e si studia come modificare gli atteggiamenti che fanno male nel rapporto.
Secondo un originario modello teorico-clinico, denominato delle Relazioni Oggettuali, le persone incontrandosi si comunicano inconsciamente e si creano dei legami. Due persone che si incontrano creano un patto inconscio e l’uno fa giocare una parte all’altro senza volerlo, e viceversa. Aspetti di relazioni genitoriali e familiari che abbiamo internalizzato vengono “messi” sul nostro patner e il patner fa lo stesso con noi, in questo modo si viene talvolta a creare un deposito o nodo collusivo fonte di tensioni e disagi relazionali e coniugali.
Un altro modello é quello che considera la relazione tra due persone sia nel presente del “qui ed ora”, per cui ognuno mette a disposizione aspetti reali del proprio modo d’essere, che come frutto di aspetti transgenerazionali interiorizzati e irrisolti del “là ed allora”.

Quando intraprenderla?
Quando si ha la sensazione che di doversi controllare per evitare le reazioni dell’altro, oppure quando si litiga senza motivo; se non si ha più voglia di passare del tempo insieme, di stare vicini fisicamente. O se i figli diventano terreno di scontro.

Ecco perché diverrà oggetto d’interesse conoscitivo in sede di consultazione capire per es. che cosa lega quella coppia ovvero quali sono gli elementi che li tengono assieme malgrado tutto? Che cosa li ha attratti e legati? Quali sono gli aspetti di Sé che ciascuno mette o non mette in campo nel legame? Quali aspetti principali del funzionamento individuale si sono legati? Ci sono coppie che funzionano su un bisogno primario di accudimento altre su un “bisogno edipico” più di conflittualità.
I legami devono anche essere in grado di trasformarsi, tanto più sono rigidi tanto più sono destinati alla crisi e alla rottura.
Con la genitorialità si trasforma l’identità di coppia e del legame.

In una terapia di coppia si lavora settimanalmente per 1 ora e 15 min. per avere uno scambio adeguato tra gli attori del campo relazionale. La terapia può durare da uno a due anni.

Individuale

PSICOTERAPIA INDIVIDUALE
La psicoterapia individuale dinamica aiuta a trovare le cause del malessere psicologico attraverso un allargamento del campo di consapevolezza su quello che vive la persona come esperienza emotiva, sul proprio modo di funzionare e le motivazioni, ossia le ragioni inconsce di tutto ciò. In questo tipo di terapia la conoscenza del proprio mondo psichico é la cura stessa.
La terapia privilegia il dialogo sul presente, sul passato, sulla narrazione dei sogni che offrono spunti di riflessioni ulteriori e significativi ad una più profonda comprensione di Sé.
All’inizio il terapeuta può avere un atteggiamento di ascolto empatico e risultare più o meno passivo o attivo a seconda della personalità del paziente.
Sicuramente la psicoterapia dinamica può essere più di tipo sostenitivo (psicoterapia di sostegno) quando la persona si presenta con un grosso carico di sofferenza sia sintomatica che relazionale che le impedisce di pensare con una certa serenità o capacità associativa, mentre si configura una psicoterapia espressiva (più vicina ad una psicoanalisi) quando paradossalmente il cliente sta “sufficientemente bene” da poter indagare in profondità accedendo ad aspetti dolorosi del Sé senza esserne travolto. Una psicoterapia individuale ad impostazione dinamica ha sempre delle oscillazioni tra il sostegno e l’espressività, e viceversa.

La psicoterapia dinamica individuale é indicata quando il disagio dura da tempo ed é legato al rapporto con persone significative, in presenza di blocchi emotivi, di traumi, di sintomi ansiosi (es. disturbi da attacchi di panico, fobie di vario genere). Lo stesso vale quando il malessere psichico si esprime attraverso sintomi fisici (colite, mal di testa, eruzioni cutanee) che non hanno causa organica.

Un percorso di questo tipo può durare uno, due o più anni.

Individuale 1

Psicoanalisi e società

Survive-With-a-Narcissistic-Mother-Step

In questa sezione vorrei proporvi delle suggestioni di “Psicoanalisi e Società”.
Delle riflessioni profonde e moderne di grandi autori italiani e non, di impostazioni culturali, filosofiche e psicologiche diverse nell intento di mostrarvi come la psicoanalisi sia una chiave di lettura di fenomeni attuali che investono la società 2.0.
Nello specifico l articolo ” Le mamme narciso”di M. Recalcati tratta di una radicale trasformazione  che sta  investendo sempre più l’ istituto materno,  ossia si vive meno per i propri figli e più per rivendicare la propria autonomia.
Vediamo come cambia un’immagine secolare.

Sabina Scattola

 

Ciao figlio, è il tempo della mamma Narciso.
Dal sacrificio senza limiti alla donna coccodrillo così cambia la figura materna.

Nella cultura patriarcale la madre era sintomaticamente destinata a sacrificarsi per i suoi figli e per la sua famiglia, era la madre della disponibilità totale, dell’amore senza limiti. I suoi grandi seni condensavano un destino: essere fatta per accudire e nutrire la vita. Questa rappresentazione della maternità nascondeva spesso un’ombra maligna: la madre del sacrificio era anche la madre che tratteneva i figli presso di sé, che chiedeva loro, in cambio della propria abnegazione, una fedeltà eterna. E’ per questa ragione che F.Fornari aveva a suo tempo suggerito che i grandi regimi totalitari non fossero tanto delle aberrazioni del potere del padre, ma “un’inondazione del codice materno”, una sorta di maternage melanconico e spaventoso.
Sicurezza e l’accudimento perpetuo in cambio della libertà. Sulla stessa linea di pensiero J. Lacan aveva una volta descritto il desiderio della madre come la bocca spalancata di un coccodrillo,insaziabile e pronta a divorare il suo frutto. Era una rappresentazione che contrastava volutamente le versioni più idilliache e idealizzate della madre.
Quello che Lacan intendeva segnalare e’ che in ogni madre, anche in quella più amorevole, che nella struttura stessa del desiderio della madre, troviamo una spinta cannibalica (inconscia) ad incorporare il proprio figlio.
È l’ombra scura del sacrificio materno che nella cultura patriarcale costituiva un binomio inossidabile con la figura, altrettanto infernale, del padre padrone. Era la patologia più frequente del materno:  trasfigurare la cura per la vita che cresce in una gabbia dorata che non permetteva alcuna possibilità di separazione.
Il nostro tempo ci confronta con una radicale trasformazione di questa rappresentazione della madre:  ne’ bocca di coccodrillo ne’ ragnatela adesiva ne’ sacrificio masochistico ne’ elogio della mortificazione di sé.  Alla madre della abnegazione si e’ sostituita una nuova figura della madre che potremo definire “narcisistica”. Si tratta di una madre che non vive per i propri figli, ma che vuole rivendicare la propria assoluta libertà e autonomia dai propri figli.
L’ultimo capolavoro del giovanissimo e geniale regista canadese Xavier Dolan titolato “Mommy” (2014) mostra il passaggio delicatissimo tra l una e l altra di queste rappresentazione della maternità. Per un verso la coppia madre -figlio del film assomiglia alla coppia simbiotica della patologia patriarcale della maternità: non esiste un altro mondo al di fuori di se’, non esiste un terzo, non esiste padre, non esistono uomini, non esiste nulla. E’ una negazione chi è il regista trasferisce abilmente in una opposizione tecnica traumatica: le riprese a 3 quarti, l’assenza di fuori campo, come ha fatto notare recentemente Andrea Bellavita, evidenzia un mondo che non conosce alterità, che non ha alcun “fuori” rispetto al carattere profondamente incestuoso di questa coppia. Ma è l’atteggiamento finale della madre che risulta inedito rispetto alla rappresentazione sacrificale del desiderio materno. Ella non trattiene il figlio problematico, diagnosticato “iperattivo”, ma, seppur contradditoriamente, vorrebbe liberarsene. Il suo desiderio non è più quello rappresentato dalla madre coccodrillo e dalla sua spinta fagocitante, ma quello di risultare, come afferma nella battuta finale, “vincente su tutta la linea”; per questo decide di affidare il figlio intrattabile ad una Legge folle che prescrive il suo internamento forzato.
Madre descritta in Mommy  rappresenta il doppio volto della patologia della maternità: da una parte l’eccessiva presenza, l’assenza di distanza, il cannibalismo divorante, dall’altra l’indifferenza, l’assenza di amore, la lontananza, l’esaltazione narcisistico di se stessa. Il problema della madre narcisistica non e’ più infatti quello di separarsi dai propri figli ma di doverli accudire; non è più quello di abolirsi masochisticamente come donna nella madre, ma vivere il proprio diventare madre come come un attentato, un handicap, anche sociale, al proprio essere donna. La spinta divoratrice della madre coccodrillo si è trasfigurata nell’ ossessione per la propria libertà e per la propria immagine che la maternità rischia di limitare o di deturpare. Il figlio non e’ una proprietà che viene rivendicata, ma un peso dal quale bisogna sgravarsi al più presto. Si tratta di una inedita patologia narcisistica del materno.
Si tratta di donne che vivono innanzitutto per la loro carriera e solo secondariamente e senza grande trasporto per i loro figli. In  gioco e’ la rappresentazione inedita di una madre che rifiuta giustamente il prezzo del sacrificio  rivendicando il diritto di una propria passione capace di oltrepassare l’esistenza dei figli e la necessità esclusiva del loro accudimento. È il dilemma di molte madri di oggi. Il problema però non consiste affatto in quella rivendicazione legittima e salutare anche per gli stessi figli, ma nell incapacità di trasmettere ai propri figli la possibilità dell amore come realizzazione del desiderio e non come il suo sacrificio mortifero. Se la maternità è vissuta come un ostacolo alla propria vita è perché si è perduto quella connessione che deve poter unire generativa mente l’ essere madre all essere donna. Se c’è stato un tempo quello della cultura patriarcale dove la madre tendeva ad uccidere la donna, adesso il rischio è l’opposto; e’ quello che la donna possa sopprimere la madre.
M. Recalcati, La Repubblica 28 febbraio 2015